terça-feira, 29 de março de 2011

PRIMAVERA NORDAFRICANA

L’Italia vista dall’Africa è piccola, e la Sicilia è più vicina a Tunisi che a Roma: queste considerazioni mi tornavano spesso in mente in questi giorni, assistendo alle rivoluzioni dei popoli nordafricani contro regimi che da venti o quaranta anni avevano impedito il ricambio democratico della classe politica al potere.
E’ successo in Tunisia con la caduta di Ben Ali, in Egitto con Mubarak, in Libia con Gheddafi.
Paesi vicini anche se diversi, accomunati da una comune aspirazione della giovani generazioni (che in queste nazioni rappresentano oltre il cinquanta per cento della popolazione !) alla democrazia ed alla libertà.
Non rivoluzioni fondamentaliste o islamiche quindi, anche se spesso il grido di vittoria che giunge alle nostre attente orecchie è quello di “Allah è grande !”.
Rivoluzioni che guardano più ad occidente che ad oriente, più ad Obama che a Bin Laden; un dato di fatto che dovrebbe farci riflettere e aumentare il nostro senso di responsabilità rispetto alla necessaria e utile cooperazione con Paesi che – per quanto vicini e pressoché “confinanti” con l’Italia (sia pure si tratti di un confine marino) – non abbiamo mai voluto considerare come partners naturali, o meglio ancora come la naturale estensione meridionale della nostra piccola e vecchia Europa.
Ancora una volta è stato un leader politico d’oltreoceano, il Presidente Obama, a rivolgersi per primo e con parole nuove - parole di apertura, ottimismo e speranza - a questi popoli.
Sbaglieremmo infatti a non collegare i fatti di questi giorni con lo storico e coraggioso discorso pronunciato un anno fa proprio al Cairo da Barack Obama: a insorgere sono state quelle stesse giovani generazioni arabe che si erano riversate sulla piazza della capitale egiziana per ascoltare le parole del primo Presidente nero degli Stati Uniti d’America.
Ci sbaglieremmo ugualmente, però, se pensassimo che questi giovani si rivolgano all’occidente in maniera asettica e acritica; al contrario: a noi occidentali le rivoluzioni del nord dell’africa chiedono la fine dei cinici accordi con dittatori o leader da noi comodamente considerati “moderati” perché accondiscendenti e flessibili (con noi, non certo con i loro popoli); a noi “potenze occidentali” si chiede il sostegno alla lotta per la democrazia e la libertà, nel pieno rispetto delle loro culture e delle loro tradizioni, laiche e religiose.
Israele in questo momento appare perplesso e indeciso: da un lato forse preoccupato dalla caduta di leader vicini “moderati” ma dall’altro speranzosa che le rivoluzioni si concludano con un esito democratico privo di pregiudizi religiosi e preconcette ostilità.
Anche in Italia si assiste con atteggiamento ambivalente a quanto succede sull’altra sponda del Mediterraneo. In questo caso l’indecisione è dovuta principalmente alla paura che il crollo della “diga” costituita dai regimi ‘amici’ di Tunisi, Tripoli e Il Cairo, porti con sè come prima conseguenza lo sbarco sulle nostre coste di centinaia di migliaia di profughi e immigrati clandestini.
La democrazia è sempre stata, storicamente, un processo e non un fatto compiuto.
Anche la massiccia emigrazione italiana della fine dell’ottocento e dell’inizio del novecento è stata in qualche modo collegata al processo di costruzione dello Stato italiano unitario; sarà anche grazie a quell’emigrazione di massa che si realizzerà in Italia il primo processo di modernizzazione del Paese. Ugualmente, la prima e la seconda guerra mondiale furono all’origine della seconda e della terza grande ondata migratoria; confermando, in questo caso, un’altra importante ma spesso dimenticata relazione: quella tra i conflitti bellici, le rivoluzioni e le ondate migratorie.
Silenzioso testimone di tutto ciò il Mare Mediterraneo, che dopo aver visto salpare da Napoli e Genova milioni di emigrati italiani assiste oggi, dai porti di Sfax o Bengasi, all’esodo di migliaia di giovani nordafricani verso le coste della Sicilia.