In più di una occasione il presidente del Consiglio Mario Monti per definire il suo governo tecnico si è lasciato scappare l’aggettivo «strano»; si riferiva, ovviamente, all’anomala maggioranza che lo sostiene (Partito Democratico, Popolo delle Libertà, Terzo Polo) ma anche alle caratteristiche ‘tecniche’ e non politiche dei componenti l’esecutivo. Il Presidente del Consiglio ha reagito con un'espressione di incredulità e sorpresa, quando il conduttore di una nota trasmissione televisiva italiana gli ha chiesto se dopo questa esperienza strana di governo (o di governo strano) egli intenda «non fare più politica». «Vuol dire che quella che sto facendo adesso è politica?», gli ha chiesto a sua volta il presidente del Consiglio rivendicando il merito, o il proposito, di fare con il suo governo soltanto da «intercapedine» fra l'opinione pubblica e i partiti. Che si sono un po', o un po' troppo, «divaricati» in questi ultimi anni. Una divaricazione che ha raggiunto il suo apice con la legge elettorale che ha tolto ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti al Parlamento (con eccezione di quelli eletti all’estero) e con i tre anni dell’ultimo Governo Berlusconi. Questa situazione, e non soltanto la grave crisi economica, spiega la determinazione con la quale il Governo sta intervenendo sulla riduzione dei cosiddetti “costi della politica”. In una intervista al giornale della Confindustria Il Sole 24 ore Monti ha poi detto chiaramente che “non si può derogare all'obbligo di ridurre finalmente i costi del sistema politico burocratico”. “Il governo - ha avvertito - prenderà presto misure forti”. Ed ha aggiunto che “il lavoro è a buon punto”. Ed effettivamente, anche grazie alla collaborazione delle Presidenze di Camera e Senato e alla sensibilità e disponibilità dei maggiori partiti italiani, i tagli e le riduzioni dei costi della politica sono già iniziati e in maniera significativa. Il Presidente del Consiglio (peraltro senatore anche lui, e a vita, da circa due mesi) ha compreso che un segnale in questo senso va dato al Paese. Non occorre cavalcare l’anti-politica: un confronto fra gli stanziamenti destinati alle Camere italiane e quelli destinati agli altri Parlamenti in Europa ci dice infatti che l’Italia non ha il Parlamento più costoso. E pochi sanno che il Parlamento più “caro del mondo” è proprio quello brasiliano. Il vero “costo della politica” è quello costituito dalla sua inefficienza, dalla sua scarsa produttività, dalla lentezza che troppo spesso ne contraddistingue le sue scelte.
In questa direzione l’Italia deve agire e presto, a partire dalla modificazione radicale del sistema “bicamerale perfetto”, vale a dire dal doppione rappresentato dai lavori parlamentari di Camera e Senato che si traduce in un raddoppio di tempi (e costi) non più sostenibile e comprensibile in un mondo globalizzato come il nostro, che richiederebbe invece anche dal legislativo tempi rapidi e risposte urgenti.
Se questo nuovo “strano” esecutivo, che oggi ha davanti circa un anno di lavoro fino alle prossime elezioni del 2013, riuscirà ad introdurre con il consenso della maggioranza del Parlamento le opportune modifiche costituzionali funzionali alla modernizzazione del nostro sistema istituzionale (comprensiva della riduzione del numero dei parlamentari e della riforma della legge elettorale), Mario Monti e i suoi colleghi potranno essere ricordati come i protagonisti di una importante stagione politica: la stagione che darà vita alla “Terza Repubblica”. La prima era nata all’indomani della seconda guerra mondiale e si è estesa fino alla fine degli anni ottanta, alla vigilia del ciclone “Mani Pulite” e della successiva riforma in senso maggioritario del sistema elettorale; la seconda è stata caratterizzata da una radicale contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra e, soprattutto, dall’irrompere sulla scena politica italiana di Berlusconi e del “berlusconismo”.
Una “Terza Repubblica” restituirebbe dignità e sovranità al popolo italiano e riporterebbe la politica al ruolo centrale che le spetta in un sistema democratico.
Il Governo Monti ha già restituito credibilità internazionale all’Italia; il nostro Paese, dopo gli anni bui e le umiliazioni internazionali sofferte da Berlusconi (e non solo per il ‘bunga-bunga’…), è oggi al centro della difficile ma possibile ripresa economica dell’Unione Europea. Un fatto fino a pochi mesi fa impensabile.
Una scommessa difficile, quella di questo “strano governo”: rilanciare l’economia italiana e restituire centralità alla politica. Una sfida quasi impossibile che forse solo uno “strano governo” può affrontare e vincere.
sábado, 25 de fevereiro de 2012
domingo, 21 de agosto de 2011
Armageddon
La crisi economica internazionale non è mai stata così forte; nei suoi recenti appelli al Congresso e alla nazione americana il Presidente degli Stati Uniti non ha usato giri di parole ma è andato dritto al cuore della questione, evocando addirittura l’Armageddon, l’apocalisse economica.
Anche in Italia, dove la credibilità del governo e del suo massimo rappresentante sono scese ultimamente ai minimi termini, è stato il Presidente della Repubblica ad intervenire in prima persona con un vibrante appello al senso di responsabilità dei partiti e del Parlamento per l’approvazione in tempi record di una manovra finanziaria del valore di 70 miliardi di euro in due anni.
L’opposizione ha accolto questo invito, concordando sui tempi rapidi ma non sui contenuti di una manovra che penalizza fortemente le fasce più deboli della popolazione, non taglia i costi e gli sprechi della politica, moltiplica le tasse e non dà all’economia quella ‘scossa’ annunciata dal governo qualche mese fa, evitando di fare le riforme e le liberalizzazioni necessarie.
Sullo sfondo una crisi finanziaria europea che vede da alcuni anni la moneta unica, l’Euro, al centro di ripetuti attacchi speculativi; attacchi che hanno già travolto le economie di Paesi minori, come la Grecia e l’Irlanda, ma che in un prossimo futuro potrebbero estendersi anche a Paesi ed economie maggiori come l’Italia. Per evitare ciò non è sufficiente “fare bene i compiti per casa”, ossia mantenere i conti in ordine e i saldi di bilancio al di sotto dei parametri europei.
Per allontanare lo spettro del ‘default’ e la crisi inarrestabile dell’euro sono necessarie altre condizioni: innanzitutto una forte e decisa politica comune europea; il ripiegamento dei governi europei sulle questioni di politica interna e la mancanza di una politica continentale di ampio respiro costituiscono infatti il primo elemento di debolezza e di vulnerabilità dell’Unione Europea e della moneta unica. A questo proposito mi sembra interessante la proposta, avanzata da esponenti autorevoli della politica e dell’economia, di lanciare degli ‘eurobond’, dei titoli europei con la funzione specifica di costruire un fondo di sicurezza per eventuali crisi finanziarie dei Paesi membri. Purtroppo manca oggi in Europa una guida comune forte e autorevole; manca a livello europeo come nei principali Paesi dell’Unione. Manca in particolare una comune politica estera e di difesa, che insieme alla politica economica dovrebbero costituire i capisaldi del rafforzamento strategico e definitivo dell’Unione Europea.
Coordinamento e stabilità, quindi. Princìpi ai quali non tutti i paesi europei si sono attenuti in questo ultimo decennio, aprendo le porte ai rischi della speculazione economica e finanziaria.
“Tutti i motivi che spiegano l’attuale crisi si riassumono in realtà in uno solo”, hanno scritto sul quotidiano francese ‘Le Monde’ gli ex Presidenti dell’’Unione Europea Jacques Delors e Romano Prodi: “l’assenza di una visione chiara delle sfide da parte di uomini politici che impegnino le loro responsabilità per consentire di superare le difficoltà immediate”. Una visione apparentemente pessimista, che però si conclude con un appello alla coesione e al rilancio dell’idea europea, nella convinzione che l’Euro “sopravviverà a questa crisi e ne uscirà più forte”.
E’ la speranza di quanti credono che anche questa volta sarà l’Europa ad uscire vittoriosa indicando l’unico cammino possibile per uscire dalla crisi. Come all’indomani del dopoguerra, negli anni cinquanta, e della caduta del muro di Berlino, negli anni novanta.
Affrontare questa situazione non significa soltanto percorrere una strada fatta di tagli e sacrifici. A questa crisi si risponde con una classe politica e di governo all’altezza della sfida epocale citata da Obama nel suo accorato appello al Congresso degli USA. Condizioni lontane dall’Italia di oggi, dove una classe politica in deficit di consensi (anche a causa di una legge elettorale che elegge i parlamentari italiani in liste bloccate e quindi non scelte dagli elettori) ed un governo ai minimi termini della propria credibilità interna e internazionale (a causa degli scandali e dei processi che hanno coinvolto il Presidente del Consiglio) non saranno mai in grado di traghettare il Paese al di là delle colonne d’Ercole della crisi internazionale. Non basterà quindi un nuovo governo per risollevare le sorti dell’Italia; ciò che occorre è una nuova classe dirigente e, probabilmente, una nuova politica.
Anche in Italia, dove la credibilità del governo e del suo massimo rappresentante sono scese ultimamente ai minimi termini, è stato il Presidente della Repubblica ad intervenire in prima persona con un vibrante appello al senso di responsabilità dei partiti e del Parlamento per l’approvazione in tempi record di una manovra finanziaria del valore di 70 miliardi di euro in due anni.
L’opposizione ha accolto questo invito, concordando sui tempi rapidi ma non sui contenuti di una manovra che penalizza fortemente le fasce più deboli della popolazione, non taglia i costi e gli sprechi della politica, moltiplica le tasse e non dà all’economia quella ‘scossa’ annunciata dal governo qualche mese fa, evitando di fare le riforme e le liberalizzazioni necessarie.
Sullo sfondo una crisi finanziaria europea che vede da alcuni anni la moneta unica, l’Euro, al centro di ripetuti attacchi speculativi; attacchi che hanno già travolto le economie di Paesi minori, come la Grecia e l’Irlanda, ma che in un prossimo futuro potrebbero estendersi anche a Paesi ed economie maggiori come l’Italia. Per evitare ciò non è sufficiente “fare bene i compiti per casa”, ossia mantenere i conti in ordine e i saldi di bilancio al di sotto dei parametri europei.
Per allontanare lo spettro del ‘default’ e la crisi inarrestabile dell’euro sono necessarie altre condizioni: innanzitutto una forte e decisa politica comune europea; il ripiegamento dei governi europei sulle questioni di politica interna e la mancanza di una politica continentale di ampio respiro costituiscono infatti il primo elemento di debolezza e di vulnerabilità dell’Unione Europea e della moneta unica. A questo proposito mi sembra interessante la proposta, avanzata da esponenti autorevoli della politica e dell’economia, di lanciare degli ‘eurobond’, dei titoli europei con la funzione specifica di costruire un fondo di sicurezza per eventuali crisi finanziarie dei Paesi membri. Purtroppo manca oggi in Europa una guida comune forte e autorevole; manca a livello europeo come nei principali Paesi dell’Unione. Manca in particolare una comune politica estera e di difesa, che insieme alla politica economica dovrebbero costituire i capisaldi del rafforzamento strategico e definitivo dell’Unione Europea.
Coordinamento e stabilità, quindi. Princìpi ai quali non tutti i paesi europei si sono attenuti in questo ultimo decennio, aprendo le porte ai rischi della speculazione economica e finanziaria.
“Tutti i motivi che spiegano l’attuale crisi si riassumono in realtà in uno solo”, hanno scritto sul quotidiano francese ‘Le Monde’ gli ex Presidenti dell’’Unione Europea Jacques Delors e Romano Prodi: “l’assenza di una visione chiara delle sfide da parte di uomini politici che impegnino le loro responsabilità per consentire di superare le difficoltà immediate”. Una visione apparentemente pessimista, che però si conclude con un appello alla coesione e al rilancio dell’idea europea, nella convinzione che l’Euro “sopravviverà a questa crisi e ne uscirà più forte”.
E’ la speranza di quanti credono che anche questa volta sarà l’Europa ad uscire vittoriosa indicando l’unico cammino possibile per uscire dalla crisi. Come all’indomani del dopoguerra, negli anni cinquanta, e della caduta del muro di Berlino, negli anni novanta.
Affrontare questa situazione non significa soltanto percorrere una strada fatta di tagli e sacrifici. A questa crisi si risponde con una classe politica e di governo all’altezza della sfida epocale citata da Obama nel suo accorato appello al Congresso degli USA. Condizioni lontane dall’Italia di oggi, dove una classe politica in deficit di consensi (anche a causa di una legge elettorale che elegge i parlamentari italiani in liste bloccate e quindi non scelte dagli elettori) ed un governo ai minimi termini della propria credibilità interna e internazionale (a causa degli scandali e dei processi che hanno coinvolto il Presidente del Consiglio) non saranno mai in grado di traghettare il Paese al di là delle colonne d’Ercole della crisi internazionale. Non basterà quindi un nuovo governo per risollevare le sorti dell’Italia; ciò che occorre è una nuova classe dirigente e, probabilmente, una nuova politica.
terça-feira, 29 de março de 2011
PRIMAVERA NORDAFRICANA
L’Italia vista dall’Africa è piccola, e la Sicilia è più vicina a Tunisi che a Roma: queste considerazioni mi tornavano spesso in mente in questi giorni, assistendo alle rivoluzioni dei popoli nordafricani contro regimi che da venti o quaranta anni avevano impedito il ricambio democratico della classe politica al potere.
E’ successo in Tunisia con la caduta di Ben Ali, in Egitto con Mubarak, in Libia con Gheddafi.
Paesi vicini anche se diversi, accomunati da una comune aspirazione della giovani generazioni (che in queste nazioni rappresentano oltre il cinquanta per cento della popolazione !) alla democrazia ed alla libertà.
Non rivoluzioni fondamentaliste o islamiche quindi, anche se spesso il grido di vittoria che giunge alle nostre attente orecchie è quello di “Allah è grande !”.
Rivoluzioni che guardano più ad occidente che ad oriente, più ad Obama che a Bin Laden; un dato di fatto che dovrebbe farci riflettere e aumentare il nostro senso di responsabilità rispetto alla necessaria e utile cooperazione con Paesi che – per quanto vicini e pressoché “confinanti” con l’Italia (sia pure si tratti di un confine marino) – non abbiamo mai voluto considerare come partners naturali, o meglio ancora come la naturale estensione meridionale della nostra piccola e vecchia Europa.
Ancora una volta è stato un leader politico d’oltreoceano, il Presidente Obama, a rivolgersi per primo e con parole nuove - parole di apertura, ottimismo e speranza - a questi popoli.
Sbaglieremmo infatti a non collegare i fatti di questi giorni con lo storico e coraggioso discorso pronunciato un anno fa proprio al Cairo da Barack Obama: a insorgere sono state quelle stesse giovani generazioni arabe che si erano riversate sulla piazza della capitale egiziana per ascoltare le parole del primo Presidente nero degli Stati Uniti d’America.
Ci sbaglieremmo ugualmente, però, se pensassimo che questi giovani si rivolgano all’occidente in maniera asettica e acritica; al contrario: a noi occidentali le rivoluzioni del nord dell’africa chiedono la fine dei cinici accordi con dittatori o leader da noi comodamente considerati “moderati” perché accondiscendenti e flessibili (con noi, non certo con i loro popoli); a noi “potenze occidentali” si chiede il sostegno alla lotta per la democrazia e la libertà, nel pieno rispetto delle loro culture e delle loro tradizioni, laiche e religiose.
Israele in questo momento appare perplesso e indeciso: da un lato forse preoccupato dalla caduta di leader vicini “moderati” ma dall’altro speranzosa che le rivoluzioni si concludano con un esito democratico privo di pregiudizi religiosi e preconcette ostilità.
Anche in Italia si assiste con atteggiamento ambivalente a quanto succede sull’altra sponda del Mediterraneo. In questo caso l’indecisione è dovuta principalmente alla paura che il crollo della “diga” costituita dai regimi ‘amici’ di Tunisi, Tripoli e Il Cairo, porti con sè come prima conseguenza lo sbarco sulle nostre coste di centinaia di migliaia di profughi e immigrati clandestini.
La democrazia è sempre stata, storicamente, un processo e non un fatto compiuto.
Anche la massiccia emigrazione italiana della fine dell’ottocento e dell’inizio del novecento è stata in qualche modo collegata al processo di costruzione dello Stato italiano unitario; sarà anche grazie a quell’emigrazione di massa che si realizzerà in Italia il primo processo di modernizzazione del Paese. Ugualmente, la prima e la seconda guerra mondiale furono all’origine della seconda e della terza grande ondata migratoria; confermando, in questo caso, un’altra importante ma spesso dimenticata relazione: quella tra i conflitti bellici, le rivoluzioni e le ondate migratorie.
Silenzioso testimone di tutto ciò il Mare Mediterraneo, che dopo aver visto salpare da Napoli e Genova milioni di emigrati italiani assiste oggi, dai porti di Sfax o Bengasi, all’esodo di migliaia di giovani nordafricani verso le coste della Sicilia.
E’ successo in Tunisia con la caduta di Ben Ali, in Egitto con Mubarak, in Libia con Gheddafi.
Paesi vicini anche se diversi, accomunati da una comune aspirazione della giovani generazioni (che in queste nazioni rappresentano oltre il cinquanta per cento della popolazione !) alla democrazia ed alla libertà.
Non rivoluzioni fondamentaliste o islamiche quindi, anche se spesso il grido di vittoria che giunge alle nostre attente orecchie è quello di “Allah è grande !”.
Rivoluzioni che guardano più ad occidente che ad oriente, più ad Obama che a Bin Laden; un dato di fatto che dovrebbe farci riflettere e aumentare il nostro senso di responsabilità rispetto alla necessaria e utile cooperazione con Paesi che – per quanto vicini e pressoché “confinanti” con l’Italia (sia pure si tratti di un confine marino) – non abbiamo mai voluto considerare come partners naturali, o meglio ancora come la naturale estensione meridionale della nostra piccola e vecchia Europa.
Ancora una volta è stato un leader politico d’oltreoceano, il Presidente Obama, a rivolgersi per primo e con parole nuove - parole di apertura, ottimismo e speranza - a questi popoli.
Sbaglieremmo infatti a non collegare i fatti di questi giorni con lo storico e coraggioso discorso pronunciato un anno fa proprio al Cairo da Barack Obama: a insorgere sono state quelle stesse giovani generazioni arabe che si erano riversate sulla piazza della capitale egiziana per ascoltare le parole del primo Presidente nero degli Stati Uniti d’America.
Ci sbaglieremmo ugualmente, però, se pensassimo che questi giovani si rivolgano all’occidente in maniera asettica e acritica; al contrario: a noi occidentali le rivoluzioni del nord dell’africa chiedono la fine dei cinici accordi con dittatori o leader da noi comodamente considerati “moderati” perché accondiscendenti e flessibili (con noi, non certo con i loro popoli); a noi “potenze occidentali” si chiede il sostegno alla lotta per la democrazia e la libertà, nel pieno rispetto delle loro culture e delle loro tradizioni, laiche e religiose.
Israele in questo momento appare perplesso e indeciso: da un lato forse preoccupato dalla caduta di leader vicini “moderati” ma dall’altro speranzosa che le rivoluzioni si concludano con un esito democratico privo di pregiudizi religiosi e preconcette ostilità.
Anche in Italia si assiste con atteggiamento ambivalente a quanto succede sull’altra sponda del Mediterraneo. In questo caso l’indecisione è dovuta principalmente alla paura che il crollo della “diga” costituita dai regimi ‘amici’ di Tunisi, Tripoli e Il Cairo, porti con sè come prima conseguenza lo sbarco sulle nostre coste di centinaia di migliaia di profughi e immigrati clandestini.
La democrazia è sempre stata, storicamente, un processo e non un fatto compiuto.
Anche la massiccia emigrazione italiana della fine dell’ottocento e dell’inizio del novecento è stata in qualche modo collegata al processo di costruzione dello Stato italiano unitario; sarà anche grazie a quell’emigrazione di massa che si realizzerà in Italia il primo processo di modernizzazione del Paese. Ugualmente, la prima e la seconda guerra mondiale furono all’origine della seconda e della terza grande ondata migratoria; confermando, in questo caso, un’altra importante ma spesso dimenticata relazione: quella tra i conflitti bellici, le rivoluzioni e le ondate migratorie.
Silenzioso testimone di tutto ciò il Mare Mediterraneo, che dopo aver visto salpare da Napoli e Genova milioni di emigrati italiani assiste oggi, dai porti di Sfax o Bengasi, all’esodo di migliaia di giovani nordafricani verso le coste della Sicilia.
domingo, 20 de fevereiro de 2011
IL PAESE DEL 'BUNGA BUNGA'
Ho provato piu’ volte, in questi giorni, a immaginare cosa sarebbe successo in Brasile se il Presidente Lula avesse avuto nel corso del suo mandato comportamenti simili a quelli (ormai mondialmente conosciuti) del capo del governo italiano, Berlusconi.
Come avrebbero reagito, per esempio, l’opinione pubblica brasiliana se Lula - dopo una intensa giornata di impegni istituzionali in Italia – avesse organizzato presso l’Hotel dove era ospitato un festino a luci rosse con tanto di danzatrici del ventre e streap-tease; o, ancora, cosa avrebbe scritto la stampa brasiliana se il loro Presidente fosse intervenuto presso la polizia di San Paolo per fare liberare una prostituta minorenne con la motivazione che si tratterebbe della “nipote di Obama o di Chavez”. L’ipotetico paragone potrebbe continuare con fatti o episodi ancora piu’ imbarazzanti: proviamo ad immaginare una lunga sequenza di “feste private” organizzate presso la ‘Granja do Torto’ alla presenza di decine di donne seminude lautamente compensate per la propria presenza…
Questo parallelismo mi aiuta ad esprimere un concetto importante; anzi, un principio, sancito dall’articolo 54 della Costituzione italiana: chi ricopre incarichi pubblici e’ tenuto ad adempiere al proprio dovere con “disciplina ed onore”. Non si tratta di interferire in maniera impropria e non dovuta sulla vita privata, sacra ed inviolabile, di qualunque cittadino (politici compresi), ma di esigere da chi ha responsabilita’ pubbliche e soprattutto di governo comportamenti e azioni consone al proprio mandato.
Da alcuni anni il confine tra la vita privata e quella pubblica di Silvio Berlusconi è diventato pericolosamente labile e melmoso, e questo non per la pruderie di alcuni giornali scandalistici o per l’ossessione di alcuni magistrati; sono gli evidenti e ripetuti eccessi del Presidente del Consiglio italiano a contribuire a questa situazione imbarazzante che negli ultimi mesi ha riportato sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo l’immagine stereotipata di un Paese poco serio e ormai abituato (forse rassegnato) ad essere governato da un personaggio sempre più folcloristico e grottesco.
“Il vostro capo del governo – mi ha recentemente detto un autorevole politico straniero - dà l’impressione di trascorrere le giornate difendendosi dai processi e le nottate in interminabili feste private; sarebbe interessante sapere – concludeva – quando trova (se lo trova) il tempo per governare !”
Sono convinto, tornando al parallelismo delle prime righe, che non solo in Brasile ma in qualsiasi altro Paese democratico una situazione del genere sarebbe sfociata nelle dimissioni del Primo Ministro, e questo non solo in ragione dei possibili reati connessi con tali fatti ma del generale e insopportabile discredito al quale le istituzioni sarebbero state pericolosamente esposte.
Altri due elementi aggravano il quadro appena descritto: il primo attiene alla sicurezza nazionale del Paese. Il capo del governo infatti non è un cittadino e nemmeno un politico comune; la sua residenza, per esempio, va protetta e tutelata da possibili attacchi o intrusioni esterne. Le vicende alle quali facciamo riferimento, al contrario, hanno dimostrato l’estrema vulnerabilità di tali abitazioni, esposte continuamente alla frequentazioni di personaggi equivoci e potenzialmente pericolosi. L’altro fattore è relativo all’immagine ed alla credibilità internazionale dell’Italia. Nel mondo globalizzato si tratta di caratteristiche determinanti al successo o alla debolezza del ‘Sistema Paese’ nel mondo, come sanno bene i nostri diplomatici, ultimamente occupati più a spiegare quanto succede nelle dimore private di Berlusconi che a promuovere il ‘made in Italy’.
Disciplina, Onore, Sicurezza, Credibilità: probabilmente per qualcuno si tratta ormai di parole e termini obsoleti, lontani dal lessico della politica italiana degli ultimi anni. Se così fosse ammetto allora di essere un “politico all’antica”, addirittura un nostalgico di quella che abbiamo ribattezzato come la “Prima Repubblica”, quella dove il rispetto per la bandiera e l’onore erano ancora valori forti e condivisi da tutti, indipendente dal fatto di trovarsi alla maggioranza o all’opposizione.
Come avrebbero reagito, per esempio, l’opinione pubblica brasiliana se Lula - dopo una intensa giornata di impegni istituzionali in Italia – avesse organizzato presso l’Hotel dove era ospitato un festino a luci rosse con tanto di danzatrici del ventre e streap-tease; o, ancora, cosa avrebbe scritto la stampa brasiliana se il loro Presidente fosse intervenuto presso la polizia di San Paolo per fare liberare una prostituta minorenne con la motivazione che si tratterebbe della “nipote di Obama o di Chavez”. L’ipotetico paragone potrebbe continuare con fatti o episodi ancora piu’ imbarazzanti: proviamo ad immaginare una lunga sequenza di “feste private” organizzate presso la ‘Granja do Torto’ alla presenza di decine di donne seminude lautamente compensate per la propria presenza…
Questo parallelismo mi aiuta ad esprimere un concetto importante; anzi, un principio, sancito dall’articolo 54 della Costituzione italiana: chi ricopre incarichi pubblici e’ tenuto ad adempiere al proprio dovere con “disciplina ed onore”. Non si tratta di interferire in maniera impropria e non dovuta sulla vita privata, sacra ed inviolabile, di qualunque cittadino (politici compresi), ma di esigere da chi ha responsabilita’ pubbliche e soprattutto di governo comportamenti e azioni consone al proprio mandato.
Da alcuni anni il confine tra la vita privata e quella pubblica di Silvio Berlusconi è diventato pericolosamente labile e melmoso, e questo non per la pruderie di alcuni giornali scandalistici o per l’ossessione di alcuni magistrati; sono gli evidenti e ripetuti eccessi del Presidente del Consiglio italiano a contribuire a questa situazione imbarazzante che negli ultimi mesi ha riportato sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo l’immagine stereotipata di un Paese poco serio e ormai abituato (forse rassegnato) ad essere governato da un personaggio sempre più folcloristico e grottesco.
“Il vostro capo del governo – mi ha recentemente detto un autorevole politico straniero - dà l’impressione di trascorrere le giornate difendendosi dai processi e le nottate in interminabili feste private; sarebbe interessante sapere – concludeva – quando trova (se lo trova) il tempo per governare !”
Sono convinto, tornando al parallelismo delle prime righe, che non solo in Brasile ma in qualsiasi altro Paese democratico una situazione del genere sarebbe sfociata nelle dimissioni del Primo Ministro, e questo non solo in ragione dei possibili reati connessi con tali fatti ma del generale e insopportabile discredito al quale le istituzioni sarebbero state pericolosamente esposte.
Altri due elementi aggravano il quadro appena descritto: il primo attiene alla sicurezza nazionale del Paese. Il capo del governo infatti non è un cittadino e nemmeno un politico comune; la sua residenza, per esempio, va protetta e tutelata da possibili attacchi o intrusioni esterne. Le vicende alle quali facciamo riferimento, al contrario, hanno dimostrato l’estrema vulnerabilità di tali abitazioni, esposte continuamente alla frequentazioni di personaggi equivoci e potenzialmente pericolosi. L’altro fattore è relativo all’immagine ed alla credibilità internazionale dell’Italia. Nel mondo globalizzato si tratta di caratteristiche determinanti al successo o alla debolezza del ‘Sistema Paese’ nel mondo, come sanno bene i nostri diplomatici, ultimamente occupati più a spiegare quanto succede nelle dimore private di Berlusconi che a promuovere il ‘made in Italy’.
Disciplina, Onore, Sicurezza, Credibilità: probabilmente per qualcuno si tratta ormai di parole e termini obsoleti, lontani dal lessico della politica italiana degli ultimi anni. Se così fosse ammetto allora di essere un “politico all’antica”, addirittura un nostalgico di quella che abbiamo ribattezzato come la “Prima Repubblica”, quella dove il rispetto per la bandiera e l’onore erano ancora valori forti e condivisi da tutti, indipendente dal fatto di trovarsi alla maggioranza o all’opposizione.
quarta-feira, 5 de janeiro de 2011
IL "CASO BATTISTI" TRA IPOCRISIA E VERITA'
“Nel 2009, all’indomani dell’improvvida decisione dell’allora Ministro della Giustizia brasiliano di concedere lo status di rifugiato politico a Cesare Battisti, ci mobilitammo in molti per evitare la scarcerazione del terrorista riprendendo nel contempo un’azione pressante di informazione diretta alle autorità brasiliane sui reali contorni della vicenda storico-politica e processuale che aveva portato alla condanna dello stesso Battisti da parte della magistratura italiana.
L’opinione pubblica italiana era comprensibilmente esterrefatta di fronte alla ventilata e possibile scarcerazione del terrorista e tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento si attivarono subito per levare alta la voce delle istituzioni repubblicane a difesa dello Stato di diritto e della democrazia che gli attentati cinici e violenti ai quali Cesare Battisti aveva partecipato tentarono negli anni ’70 di intimidire e destabilizzare.
Il Parlamento approvò così una mozione unitaria che riproponeva con forza la giusta e legittima richiesta italiana di chiedere al Brasile l’estradizione di Battisti e il sottoscritto insieme al Vice Presidente della Camera On. Maurizio Lupi si recò in missione ufficiale in Brasile per incontrare i nostri colleghi brasiliani.
Incontrammo l’allora Presidente della Camera ed oggi Vice Presidente del Brasile Michel Temer al quale, a nome del Parlamento italiano, rinnovammo tale invito, nel rispetto delle rispettive prerogative e con la ferma intenzione di mantenere saldi e forti gli storici legami tra i due Paesi.
Mentre il Parlamento faceva la sua parte il Capo del governo italiano incontrava per ben due volte il Presidente brasiliano Luis Inacio Lula da Silva; in nessuno dei due incontri avuti con il suo omologo brasiliano Silvio Berlusconi ha affrontato in maniera diretta e decisa la questione, come sarebbe stato opportuno e anche prevedibile che accadesse.
Gli interventi del Presidente del Consiglio e del governo sono avvenuti così soltanto a cose fatte e a rimorchio delle polemiche giornalistiche e delle proteste dell’opinione pubblica.
Il Parlamento e il Presidente della Repubblica hanno fatto sentire in maniera tanto chiara e forte quanto corretta e rispettosa la loro voce a riguardo; dall’altro lato il governo agiva con approssimazione e distrazione, più con l’arma della propaganda che con azioni e gesti mirati.
A seguito dell’ultima decisione dell’ex Presidente del Brasile, ritengo che – come autorevolmente ha sostenuto l’insigne giurista Antonio Cassese – “una possibile soluzione possa essere trovata soltanto se Italia e Brasile, insieme, con intelligenza, collaborazione e civiltà, rinunceranno alla propaganda per scegliere insieme un percorso di giustizia e maturità politica”.
In questo senso la proposta di creare una Commissione di Conciliazione tra Italia e Brasile come previsto dall’accordo del 1954 e sotto l’egida del Tribunale de L’Aja potrebbe rappresentare una strada utile ad una seria soluzione della controversia.
I rapporti tra l’Italia e il Brasile sono molto più forti di una controversia legale, per quanto grave e delicata come questa: essi affondano le proprie radici nell’epopea di milioni di nostri connazionali che nel corso di oltre un secolo hanno scelto quel Paese come la loro nuova terra; oggi sono oltre trenta milioni i brasiliani di origine italiana e ad unirci è sempre più il futuro dei nostri due Paesi, non più soltanto il nostro comune passato.
E’ per questo che il “caso Battisti” può e deve costituire un punto di partenza per riaprire e riavviare questo fruttuoso e necessario dialogo; non piuttosto un infausto punto finale di una storia gloriosa.
Sono certo che i due Presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano e Dilma Rousseff, sapranno essere con saggezza e lungimiranza gli artefici di questo auspicato e improrogabile nuovo inizio.”
L’opinione pubblica italiana era comprensibilmente esterrefatta di fronte alla ventilata e possibile scarcerazione del terrorista e tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento si attivarono subito per levare alta la voce delle istituzioni repubblicane a difesa dello Stato di diritto e della democrazia che gli attentati cinici e violenti ai quali Cesare Battisti aveva partecipato tentarono negli anni ’70 di intimidire e destabilizzare.
Il Parlamento approvò così una mozione unitaria che riproponeva con forza la giusta e legittima richiesta italiana di chiedere al Brasile l’estradizione di Battisti e il sottoscritto insieme al Vice Presidente della Camera On. Maurizio Lupi si recò in missione ufficiale in Brasile per incontrare i nostri colleghi brasiliani.
Incontrammo l’allora Presidente della Camera ed oggi Vice Presidente del Brasile Michel Temer al quale, a nome del Parlamento italiano, rinnovammo tale invito, nel rispetto delle rispettive prerogative e con la ferma intenzione di mantenere saldi e forti gli storici legami tra i due Paesi.
Mentre il Parlamento faceva la sua parte il Capo del governo italiano incontrava per ben due volte il Presidente brasiliano Luis Inacio Lula da Silva; in nessuno dei due incontri avuti con il suo omologo brasiliano Silvio Berlusconi ha affrontato in maniera diretta e decisa la questione, come sarebbe stato opportuno e anche prevedibile che accadesse.
Gli interventi del Presidente del Consiglio e del governo sono avvenuti così soltanto a cose fatte e a rimorchio delle polemiche giornalistiche e delle proteste dell’opinione pubblica.
Il Parlamento e il Presidente della Repubblica hanno fatto sentire in maniera tanto chiara e forte quanto corretta e rispettosa la loro voce a riguardo; dall’altro lato il governo agiva con approssimazione e distrazione, più con l’arma della propaganda che con azioni e gesti mirati.
A seguito dell’ultima decisione dell’ex Presidente del Brasile, ritengo che – come autorevolmente ha sostenuto l’insigne giurista Antonio Cassese – “una possibile soluzione possa essere trovata soltanto se Italia e Brasile, insieme, con intelligenza, collaborazione e civiltà, rinunceranno alla propaganda per scegliere insieme un percorso di giustizia e maturità politica”.
In questo senso la proposta di creare una Commissione di Conciliazione tra Italia e Brasile come previsto dall’accordo del 1954 e sotto l’egida del Tribunale de L’Aja potrebbe rappresentare una strada utile ad una seria soluzione della controversia.
I rapporti tra l’Italia e il Brasile sono molto più forti di una controversia legale, per quanto grave e delicata come questa: essi affondano le proprie radici nell’epopea di milioni di nostri connazionali che nel corso di oltre un secolo hanno scelto quel Paese come la loro nuova terra; oggi sono oltre trenta milioni i brasiliani di origine italiana e ad unirci è sempre più il futuro dei nostri due Paesi, non più soltanto il nostro comune passato.
E’ per questo che il “caso Battisti” può e deve costituire un punto di partenza per riaprire e riavviare questo fruttuoso e necessario dialogo; non piuttosto un infausto punto finale di una storia gloriosa.
Sono certo che i due Presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano e Dilma Rousseff, sapranno essere con saggezza e lungimiranza gli artefici di questo auspicato e improrogabile nuovo inizio.”
sábado, 11 de dezembro de 2010
terça-feira, 30 de novembro de 2010
LA POLITICA DEL “FAIR PLAY”
Può esistere un nesso tra impegno politico e pratica sportiva?
Non sono mai stato, né mi sono mai sentito un “politico di professione”; eppure ho sempre fatto politica, magari a volte senza esserne pienamente consapevole, da quando bambino sono stato prima ‘lupetto’ e poi ‘scout’, poi ancora dirigente locale e nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, quindi obiettore di coscienza (al servizio militare) in servizio civile alternativo, sindacalista e cooperante (responsabile per programmi di cooperazione internazionale allo sviluppo).
Ero attratto, anche per questioni familiari (un fratello Vice Sindaco, un papà sindacalista, uno zio Presidente di Regione…), dall’arte della politica, ma al tempo stesso diffidavo dagli intrighi e dalle liti, dagli accordi sottobanco e dalle discussioni infinite e a volte senza risultato alcuno tipiche della politica.
Ad un certo punto, avevo 14 anni, pensavo che il mio futuro fosse nello sport; facevo parte di una squadra di pallavolo e per tre anni credo di avere trascorso più tempo in palestra che sui libri.
Al liceo le cose andarono diversamente: lo studio e gli impegni associativi ebbero la meglio su quelli agonistici, ma credo che la l’esperienza sportiva mi sia rimasta dentro e che abbia permeato anche il mio impegno politico.
La pallavolo è uno sport molto praticato dai giovani, in Italia come in Brasile, anche se purtroppo non gode dell’attenzione dei grandi mezzi di comunicazione di massa, e quindi delle risorse, che fanno del calcio (anche in questo caso: in Italia come in Brasile) lo sport più amato, praticato e ( $$$ ) sponsorizzato.
Due sono le caratteristiche che fanno del volley uno sport a mio parere straordinario: il fondamentale e necessario senso della squadra da un lato e la mancanza del contatto fisico con l’avversario dall’altro.
Nel calcio è possibile che un campione “faccia la differenza” e gli annali calcistici sono pieni di esempi che dimostrano questa tesi; è ovvio che anche il calcio, come tutti gli sport di equipe, si fonda su un impegno coordinato di un gruppo di atleti ma l’equilibrio tra il ruolo del campione (o del “craque”) e il resto della squadra non sempre è bilanciato a favore di quest’ultima.
Nella pallavolo l’equipe è tutto, e questo è anche favorito e reso necessario dal continuo turn-over di giocatori nel corso della stessa partita.
Altra caratteristica, forse ancora più esclusiva, è quella di giocare tra due gruppi che si fronteggiano ma non arrivano mai a toccarsi. Se ci pensiamo bene un caso quasi unico tra gli sport di squadra, che basano una parte importante del loro agonismo e anche dello spettacolo nel contatto, se non nello scontro fisico, con l’avversario.
Non si tratta di un dettaglio: la mancanza dello scontro fisico costringe l’atleta a concentrarsi al massimo sulla perfezione del gesto, a raggiungere una perfetta intesa con i propri compagni di squadra, a scatenare la propria forza fisica sul pallone e non sul suo rivale.
Pensandoci bene, credo proprio che quelle lunghe ore e quegli anni trascorsi in palestra non siano passati invano; a beneficiarne non è stato soltanto il mio fisico ma la mia testa, e sicuramente il politico ha appreso non poco da quell’insegnamento sportivo.
Se la politica di oggi fosse basata più sul ‘gioco di squadra’ e meno sul leaderismo populista di alcuni personaggi e se il dibattito anche più acceso con gli avversari fosse meno ‘gridato’ e più ragionato, più concentrato sulla palla e quindi sui contenuti e meno sulla demolizione della fazione rivale probabilmente le nostre società, i nostri Paesi ne trarrebbero un grande beneficio.
Non sono mai stato, né mi sono mai sentito un “politico di professione”; eppure ho sempre fatto politica, magari a volte senza esserne pienamente consapevole, da quando bambino sono stato prima ‘lupetto’ e poi ‘scout’, poi ancora dirigente locale e nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, quindi obiettore di coscienza (al servizio militare) in servizio civile alternativo, sindacalista e cooperante (responsabile per programmi di cooperazione internazionale allo sviluppo).
Ero attratto, anche per questioni familiari (un fratello Vice Sindaco, un papà sindacalista, uno zio Presidente di Regione…), dall’arte della politica, ma al tempo stesso diffidavo dagli intrighi e dalle liti, dagli accordi sottobanco e dalle discussioni infinite e a volte senza risultato alcuno tipiche della politica.
Ad un certo punto, avevo 14 anni, pensavo che il mio futuro fosse nello sport; facevo parte di una squadra di pallavolo e per tre anni credo di avere trascorso più tempo in palestra che sui libri.
Al liceo le cose andarono diversamente: lo studio e gli impegni associativi ebbero la meglio su quelli agonistici, ma credo che la l’esperienza sportiva mi sia rimasta dentro e che abbia permeato anche il mio impegno politico.
La pallavolo è uno sport molto praticato dai giovani, in Italia come in Brasile, anche se purtroppo non gode dell’attenzione dei grandi mezzi di comunicazione di massa, e quindi delle risorse, che fanno del calcio (anche in questo caso: in Italia come in Brasile) lo sport più amato, praticato e ( $$$ ) sponsorizzato.
Due sono le caratteristiche che fanno del volley uno sport a mio parere straordinario: il fondamentale e necessario senso della squadra da un lato e la mancanza del contatto fisico con l’avversario dall’altro.
Nel calcio è possibile che un campione “faccia la differenza” e gli annali calcistici sono pieni di esempi che dimostrano questa tesi; è ovvio che anche il calcio, come tutti gli sport di equipe, si fonda su un impegno coordinato di un gruppo di atleti ma l’equilibrio tra il ruolo del campione (o del “craque”) e il resto della squadra non sempre è bilanciato a favore di quest’ultima.
Nella pallavolo l’equipe è tutto, e questo è anche favorito e reso necessario dal continuo turn-over di giocatori nel corso della stessa partita.
Altra caratteristica, forse ancora più esclusiva, è quella di giocare tra due gruppi che si fronteggiano ma non arrivano mai a toccarsi. Se ci pensiamo bene un caso quasi unico tra gli sport di squadra, che basano una parte importante del loro agonismo e anche dello spettacolo nel contatto, se non nello scontro fisico, con l’avversario.
Non si tratta di un dettaglio: la mancanza dello scontro fisico costringe l’atleta a concentrarsi al massimo sulla perfezione del gesto, a raggiungere una perfetta intesa con i propri compagni di squadra, a scatenare la propria forza fisica sul pallone e non sul suo rivale.
Pensandoci bene, credo proprio che quelle lunghe ore e quegli anni trascorsi in palestra non siano passati invano; a beneficiarne non è stato soltanto il mio fisico ma la mia testa, e sicuramente il politico ha appreso non poco da quell’insegnamento sportivo.
Se la politica di oggi fosse basata più sul ‘gioco di squadra’ e meno sul leaderismo populista di alcuni personaggi e se il dibattito anche più acceso con gli avversari fosse meno ‘gridato’ e più ragionato, più concentrato sulla palla e quindi sui contenuti e meno sulla demolizione della fazione rivale probabilmente le nostre società, i nostri Paesi ne trarrebbero un grande beneficio.
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